( quadro realizzato da Antonietta Gianfreda)
Peppino era mingherlino, ma molto
forte, anche fisicamente. Non era mai stanco delle sue passeggiate in montagna,
delle giornate che, seduto sul bagnasciuga, trascorreva al mare aspettando il
tramonto. Mi tornano in mente i bagni fatti insieme, gli spruzzi d'acqua, i
giochi, le gite in barca e la pesca dei ricci.
Credo che, per Peppino, sia sempre
stata quella l'immagine della serenità: gli piaceva moltissimo cucinare in
spiaggia il pesce che aveva appena pescato. Poi era colmo di passioni, di
curiosità intellettuali. E leggeva moltissimo. Ancora oggi, quando rileggo i
suoi testi, mi stupisco della varietà degli interessi. Mi soffermo spesso a
leggere quei suoi appunti, riflessioni e commenti scritti minutamente negli
spazi bianchi laterali delle pagine.
Gli piaceva la letteratura russa,
possedeva quasi tutti i testi di Dostoevskij. Amava Sartre, i poeti maledetti
francesi, Camus. Aveva anche una forte ammirazione per Pasolini e per i suoi
romanzi. Ricordo ancora come reagì quando in televisione dettero la notizia
della sua morte. Dalla rabbia tirò verso lo schermo una scarpa che si era
sfilata.
Divorava anche saggi storici e le
analisi sulla mafia, le opere di Marx, Lenin, Gramsci. La sua non era una
lettura superficiale, studiava e approfondiva ogni singola frase: la
sottolineava e, nei margini, aggiungeva le sue considerazioni. Mi sembra ancora
di vederlo, sepolto dai fogli riempiti da una scrittura, magari scomposta, ma
che esprimeva riflessioni molto articolate.
La cultura ha avuto un ruolo
determinante, fondamentale per la sua crescita. Lo ha aiutato ad allargare i
suoi orizzonti, il suo sapere. Non ha soffocato, come purtroppo è accaduto ad
altri, la sua umiltà. Peppino non ostentava atteggiamenti da intellettuale e
neppure si sentiva in una torre d'avorio.
Riusciva a comunicare e farsi capire
anche dalle persone più semplici, dai contadini e dagli edili con i quali,
spesso in dialetto strettissimo, usava le espressioni più popolari e colorite.
Aveva accolto nel suo gruppo di amici anche un giovane nero che era nato dalla
relazione che durante la guerra una donna di Cinisi aveva avuto con un soldato
afro-americano. Questo ragazzo era emarginato da tutti per il colore della
pelle; Peppino l'ha aiutato a studiare, era suo amico e anche questo è stato visto
come un fatto strano.
Ammirava molto la gente comune,
perché diceva che da ciascuno di loro potevi ottenere qualcosa di importante,
un piccolissimo pezzo di verità.
Si divertiva a sconvolgere e a
scompaginare i codici comportamentali rigidi e bigotti della chiesa cattolica
mentre, nel modo più assoluto, non sopportava quelle persone che, fingendosi
timorate di Dio e delle sue leggi, approfittavano di ogni occasione per
calpestare il loro prossimo. Peppino era ateo e anticlericale, libero da ogni
tipo di influenza.
A suo modo
era un provocatore, spesso un anticonformista.
(da
Resistere a Mafiopoli – La storia di mio fratello Peppino Impastato di Giovanni
Impastato e Franco Vassia)
Spesso sono tanti i particolari
che possiamo evincere dal racconto della vita di un uomo, se è vero, come è
vero, che questo facciamo in vita
riecheggia a grandi distanze.
In questo non posso fare a meno di notare la
grande compostezza e la disarmante sobrietà con le quali l’autore ci parla di
suo fratello. Non penso si possa definire questo “spaccato” un epitaffio in
memoria di un eroe, perché Peppino Impastato non lo era. Definendolo tale
probabilmente lo si offenderebbe, lo si sminuirebbe, lo si ucciderebbe ancora
una volta.
Peppino Impastato era un uomo,
nel senso più pieno del termine, e questo credo sia molto più difficile, più
complicato, se vogliamo anche più bello dell’essere solo un eroe. Gli eroi
possono anche essere negativi, Peppino no. Peppino era soltanto un uomo. Un uomo
che si è attribuito il diritto di guardare i suoi simili dall'alto verso il
basso solo per provare ad aiutarli a risollevarsi, un uomo “nutrito” dall’imprescindibile
ideale di una Bellezza che dovrebbe essere fedele compagna delle nostre vite,
un uomo che non ha mai voltato la testa dall'altra parte, un uomo che ha saputo
far suo quello che Pasolini definì il linguaggio pedagogico delle cose. Un eccellente
fautore di quella che dovrebbe essere sempre una “situazione discorsiva
partecipata”, “un uomo di pace” avrebbe
detto Danilo Dolci, suo personale amico. Un uomo di cultura e un uomo di
Bellezza, la Bellezza di una poesia, di una pagina di un romanzo, di un’opera d’arte
di ogni genere, elementi che, se appresi a dovere, potrebbero forse meglio
farci rendere conto di ciò che siamo diventati, uno spettacolo di infimo
livello.
Peppino Impastato non era un eroe, era un uomo, un uomo alimentato da
principi e valori che purtroppo oggi, paiono aver preso strade troppo dissimili
dalle nostre.
Io credo che come lui ce ne siano tanti, uomini onesti, puliti,
coerenti, uomini perbene e, soprattutto, uomini semplici, figli di un’epoca
dove, forse, “essere “ conta ancora qualcosa.
Soprattutto mi auguro che,
qualora questi uomini tali non lo possano più essere (e ciò andrebbe a nostra
vergogna), ci sia sempre qualcuno che, come Giovanni Impastato, ne possa sempre
trasmettere l’esempio, con grande compostezza e disarmante sobrietà.
Se così fosse ci sentiremmo meno
soli e, forse, ci renderemmo conto che non tutto è ancora perduto.
(commento a cura di Gabriele Manelli)
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